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Alla Libreria di Alice io e Mari Ermi ci siamo sentiti davvero a casa

La libreria di Alice. Che meraviglia!
La libreria di Alice. Che meraviglia!

Quando sono entrata in libreria, io e Alice ci siamo salutate con un enorme abbraccio. Un abbraccio spontaneo, vivace, pieno di energia positiva. Lei me l’aveva detto più volte – “Ti aspetto a braccia aperte!” – mostrando un calore che percepivo chiaramente attraverso lo schermo, tra le righe dei suoi messaggi e le parole dei suoi vocali, e che dal vivo ha rivelato tutta la sua intensità, facendomi subito sentire a casa.

Questa me l'ha mandata Alice qualche giorno prima della presentazione. Adoro!
Questa me l’ha mandata Alice qualche giorno prima della presentazione. Adoro!

Faccio un piccolo passo indietro. Di Alice avevo sempre sentito parlare benissimo, ma ho avuto il piacere di conoscerla solo a metà dello scorso marzo, quando la mia editrice, Stefania Convalle, mi ha messo in contatto con lei, che voleva invitarmi per una presentazione. Due cose voglio dire subito. La prima è che sono bastati pochissimi messaggi perché capissi con chi avevo a che fare: una persona calorosa, entusiasta, felice della vita e gioiosa delle sue passioni – una gioia che riesce a trasmettere con un’intensità che raramente mi è capitato di incontrare sulla mia strada. La seconda è che io e Alice siamo entrate subito in sintonia: per intenderci, lei è una di quelle persone per cui mi viene da pensare “incredibile, mi sembra di conoscerla da sempre!

Prima della presentazione, io e Alice abbiamo trovato il tempo per qualche scatto significativo insieme!
Prima della presentazione, io e Alice abbiamo trovato il tempo per qualche scatto significativo insieme!

Ma torniamo a noi. Dicevo poco fa che il suo calore mi ha fatto subito sentire a casa. Vorrei aggiungere, a questo punto, che la sua libreria non è stata da meno. E voglio dedicarle qualche riga, perché La libreria di Alice ha un taglio tutto suo, perché è uno di quei luoghi che possiedono una personalità, un’anima palpabile: ci sono i libri, naturalmente, romanzi e storie che lei – si coglie subito – sceglie ed espone con grande cura; ci sono gli scaffali con quell’aria di antico e perenne insieme; e ci sono i tè, gli infusi, le tisane e i caffè, che donano all’ambiente una vasta gamma di profumi – profumi più o meno forti, profumi di buono, profumi di casa – nell’atmosfera di una musica rilassante.
A tutto questo, poi, sabato 27 aprile si aggiungeva l’allestimento dedicato a Mari Ermi che Alice ha preparato con cura e originalità e che includeva anche un componente speciale: la bandiera della Sardegna che la mia collega e conterranea Maria Rita Sanna ha donato a Stefania Convalle alcuni anni fa – la bandiera che mi aveva già fatto compagnia, portandomi davvero tanta fortuna, nelle tre fiere a cui ho preso parte negli ultimi due anni e che Stefania Convalle, in un gesto davvero generoso del quale sono immensamente grata, ha inviato ad Alice proprio per questo evento.
Ma non è finita qui! In perfetto tema col libro, Alice ha preparato una tisana agli agrumi che offriva ai presenti insieme ai biscottini deliziosi cucinati da sua madre (un’altra persona magnifica, insieme al compagno di Alice).

Alcuni degli scatti del pomeriggio. 
Che bello incontrarvi tutti!
Alcuni scatti del pomeriggio, scelti a caso.
Che bello incontrarvi tutti!

Ma arriviamo allora alle persone. Perché un pensiero speciale voglio dedicarlo a loro, le persone che sono venute all’incontro e che mi hanno fatto sentire davvero accolta. Ho avvertito tutto il calore della Romagna unito alla curiosità e all’interesse rispetto alla storia di Mari Ermi e alla Sardegna più in generale, ed è stato piacevolissimo chiacchierare con tutte loro anche prima e dopo la presentazione, scambiare sorrisi, scattare fotografie.

La presentazione è stata bellissima. Le domande e le considerazioni di Alice, così lucide e profonde, ci hanno consentito di parlare di tante cose: della Sardegna, di questo titolo e del valore di Mari Ermi per me e per il romanzo, di retroscena e curiosità varie, dei miei personaggi, del loro percorso di crescita e soprattutto della natura, dell’importanza che riveste nell’esperienza umana, del ruolo che attribuisco ai cinque sensi, del colore, e poi dei sogni, della mia passione per la scrittura e di tanto altro ancora. Abbiamo chiacchierato, riso, condiviso pensieri e anche esperienze, e ancora scambiato spunti, idee, opinioni, suggestioni.

C’è stato poi un momento particolarmente emozionante, una grandissima sorpresa: Stefania Convalle ha inviato ad Alice la targa del premio che ho conseguito di recente al concorso Dentro l’amore, organizzato proprio da Edizioni Convalle e alla cui serata finale non ero riuscita a presenziare. È stato un momento magico, intenso, che porterò sempre con me come ogni istante di questa giornata indimenticabile.

La sera, mentre gironzolavo e curiosavo tra gli scaffali di Alice scegliendo dei libri e dei tè, facendomi avvolgere dalla gioia che questi eventi e questi incontri mi regalano, non ho potuto fare a meno di pensare a quanto io sia grata per tutto questo.

Quello che ho portato via dalla libreria di Alice, tra acquisti e regali!
Quello che ho portato via dalla libreria di Alice, tra acquisti e regali!

Concludo, allora, con un po’ di ringraziamenti. Ad Alice, per come mi ha accolto, per quello che ha fatto per questa presentazione e soprattutto per la sensibilità con cui ha saputo cogliere l’anima di Mari Ermi. Alla mia editrice, Stefania Convalle, per il sostegno prezioso, per il dono della bandiera e per la fantastica sorpresa. A tutte le persone che sono venute e che hanno avuto il piacere di condividere questi momenti con me, dando fiducia al mio romanzo. A Matteo, perché la sua disponibilità e il suo affetto mi hanno consentito di dedicarmi a questo evento con serenità.
Grazie, davvero.
Lo dico sempre e voglio ripeterlo anche qui: questo della scrittura è un mondo difficile, ma le soddisfazioni che dà sono davvero immense.

Se hai piacere di vedere altri scatti di questo pomeriggio, visita la galleria fotografica dedicata a Mari Ermi cliccando qui. 😉

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Oltre il confine è il romanzo immenso di uno scrittore immenso

Ci sono pagine di questo libro dove semplicemente smetti di respirare. Pagine che pensi di fermarti perché non sei in grado di reggere un minuto di più la storia e la prosa. Pagine che dopo averle lette resti a fissare il soffitto per ore. È questo che ho fatto alla fine della prima parte, è questo che ho fatto alla fine del libro.
E comincio così il mio articolo perché non so da dove altro cominciare se non da quello che leggere Oltre il confine comporta. Se non da quello che la penna immensa di McCarthy ti lascia.
Gli occhi gialli di una lupa, ad esempio. Sarà impossibile dimenticarli.
È con lei, la lupa, che inizia il viaggio di Billy Parham avanti e indietro per il confine tra New Mexico e México, un percorso fisico e interiore lungo strade familiari e ignote, un’iniziazione violenta che passa per margini geografici invisibili, per simboli e significati che si deformano laddove niente sembra cambiare.
Oltre il confine è un western di formazione, e con Cavalli selvaggi, primo della Trilogia della frontiera e suo predecessore, condivide il fulcro motore del viaggio e il potere arcano dell’ambientazione, discostandosene tuttavia per l’orientamento e, soprattutto, per il tono: laddove il primo era spensierato, il secondo è cupo; laddove il primo era sfumato e misterioso, il secondo è concreto e mistico; entrambi ti scavano dentro, ma se il primo lo faceva ammaliandoti, il secondo lo fa lacerandoti.
Anche la linea sui protagonisti è diversa: la scelta di lasciare John Grady Cole un poco sfuggente si accorda bene – e contribuisce – al fascino incantato e fumoso di Cavalli Selvaggi; Billy Parham, invece, lo si inquadra subito, e i suoi intenti e rimpianti orientano una trama più tangibile e toccante.
Billy è un ragazzo onesto, generoso, con un forte senso del dovere e con un senso di appartenenza che vive nel modo più profondo proiettandolo sugli altri. Non per niente, è il leitmotiv del riportare a casa a guidare l’intera storia – e riportare a casa implica il confronto col confine; riportare a casa determina incontri con persone, eventi, storie – come se per Billy la ricerca di sé passasse attraverso il recupero del posto giusto per chi, in un modo o nell’altro, ai suoi occhi ha perso la strada, o per chi a quel posto è stato sottratto.
In questo percorso di passaggi(o), legami con animali, persone e luoghi si creano e mutano in continuazione, configurandosi base e forza portante dell’idea stessa di appartenenza. Lo vediamo in tanti modi: nell’implicito doppio di quel es mia tra un ragazzo e una lupa; nel rapporto profondo e tormentato tra due fratelli; nel sentimento silenzioso ma altissimo di un giovane nei confronti di un luogo che ha sempre chiamato casa.
In questi e in molti altri sensi, Oltre il confine è una storia che parla d’amore. Una storia pervasa da moti di struggimento e di tenerezza che scuotono nel profondo. Come scuote l’altezza e la potenza della scrittura. McCarthy, per esempio, non ti racconta mai cosa pensano i personaggi – te li mostra, pensieri e sentimenti, nel mutare della luce sotto i loro sguardi, nel modo in cui percepiscono il paesaggio, nel loro rapporto con la natura e gli elementi (emblematico, in questo senso, come l’immensa solitudine di Billy ci travolga mentre lui accarezza il cavallo, alza lo sguardo verso un falco o raccoglie la legna per il fuoco). Allo stesso modo – e questo è ancora più disarmante – McCarthy riesce a parlarti di tutto ciò che è la vita, il dolore, l’esperienza umana semplicemente raccontandoti gesti quotidiani (quelli compiuti in casa, ad esempio, come riempire un piatto o accendere una stufa).
Ecco perché nel gesto più semplice c’è una solennità che sconvolge; ecco perché anche in pagine prive di eventi c’è tutto; ecco perché la storia ha un sapore epico dalla prima all’ultima parola.
La storia, poi. La storia.
Una storia di cavalli, terra rossa, alte montagne, deserti, braci, solitudine, piste di carovane, sangue, orazioni, polvere, uomini generosi e uomini crudeli, abiti logori, fratellanza, vento, altopiani selvaggi, sensi di colpa, praterie, e nel frattempo soli rossi che fremono, fiumi come metallo di fonderia, pascoli notturni azzurri e silenziosi, il sibilo del nevischio che muore tra le braci, cittadine al buio come serpenti adorni di pietre preziose, antichi pioppi in un paesaggio da fiaba, il silenzio di temporali lontani come in una campana di vetro, e poi lunghi tramonti blu, storie raccontate a un cavallo coperto di brina bianca, luci lunari tra le nuvole come candele piantate su teschi, gridi nell’oscurità nelle scintille di un fuoco, stelle come fori in una lanterna di latta; e gli occhi della lupa che si incendiano come lampioni di una porta su un altro mondo; e in un mucchio di carboni una finestrella segreta, aperta sul nocciolo infuocato della terra; e poi chiazze di umidità sui muri che diventano mappe di antichi mondi; e cancelli d’ingresso di un’antica impresa, caduti per terra, nella griglia metallica lucida dell’acqua in un campo.
È questo che ci dona la penna immensa di uno scrittore immenso. Tutta questa poesia. Tutta questa poesia nel mondo. Tutta questa poesia nel suo realismo desolato. E una prosa che la contiene
Da lettori, come si può reggere una prosa così? Soprattutto, come si può leggere un libro del genere senza vivere ogni pagina come una religione? Perché ogni pagina ti spalanca gli occhi sul mondo.
Sì, perché è del mondo che si parla in questo libro. Perché il confine non è tanto quello fisico tra New Mexico e México, non è tanto il confine di quelle imprese segnate dal destino che dividono per sempre le vite tra il prima e l’adesso, né tanto quello tra chi è Billy all’inizio e alla fine di questo viaggio. È il confine – sfumato, vago, nullo – tra il mondo e le storie, tra la tua storia e quella degli altri, tra tutte le storie e l’unica storia.
È il confine che ti porta oltre te stesso. È il confine tra quello che sei prima di leggere questo libro e quello che sei dopo.
Non guarderai più niente con gli stessi occhi.

La mia edizione di Oltre il confine.
Foto scattata nel dicembre 2023, in Sardegna, poco fuori dal mio paese.
La mia edizione di Oltre il confine.
Foto scattata nel dicembre 2023, in Sardegna, poco fuori dal mio paese.

***

Come avevo già fatto per Cavalli selvaggi, anche in questo caso ho deciso di trascrivere una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi, almeno in parte, delle sensazioni che Oltre il confine trasmette. Dico ‘almeno in parte’ perché ne avrei voluti riportare molti di più, ma mi sono accorta che diversi passi, soprattutto quelli più mistici, esprimono tutto il loro potere solo all’interno del contesto in cui si trovano, e quindi ho preferito lasciarli fuori da questa rassegna.
Ho raccolto quelli trascritti sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione Einaudi 2014.

Atmosfere diurne

“[…] e osservava con occhi socchiusi l’ovest, dove il sole fremeva in un lago asciutto e rosso sotto le montagne spoglie e le antilopi si muovevano dondolando la testa tra il bestiame nella pianura.” (p. 7)

“Davanti a lui le montagne brillavano di luce bianca accecante. Sembravano appena create dalla mano di un dio imprevidente che forse non aveva neppure deciso a cosa sarebbero servite. Appena create in quel senso. Sentì il cuore scoppiargli in petto e il cavallo, giovane come il ragazzo, scrollò la testa, fece uno scarto verso il ciglio della strada e poi scalciò con uno degli zoccoli posteriori.” (p. 28)

“L’erba gialla vibrava al soffiare del vento e la luce del sole correva per la campagna davanti alle nuvole in movimento.” (p. 55)

“Ripartirono alla ricerca di ciò che avrebbe portato loro il nuovo giorno e un’ora dopo fermarono i cavalli sul fianco orientale della scarpata e rimasero a guardare il sole che saliva come un vetro incandescente dalla pianura di Chihuahua, a ricreare il mondo dalle tenebre.” (p. 163)

“Le nuvole si erano spostate e la giornata era limpida e quieta. Sulla pianura erbosa non c’era assolutamente niente.” (p. 219)

“[…] la polvere leggera sollevata dal branco era ancora sospesa nell’aria come un velo di polline estivo.” (p. 221)

“Doveva essere rimasto inginocchiato a lungo perché il cielo a est era diventato grigio e le stelle finalmente affondavano nel lago pallido fino a diventare cenere e gli uccelli incominciarono a chiamare dalla riva lontana e il mondo ancora una volta ricomparve.” (p. 284)

“I bassifondi contenevano acqua stagnante a perdita l’occhio, che la luce del tramonto faceva sembrare un lago di sangue. […] le cime delle Animas erano illuminate dall’ultimo sole del giorno, che colorava di rosso la neve sui picchi. Più a sud, in lontananza, si scorgevano le cordilleras pallide e antiche del Messico, che segnavano il confine ultimo del mondo visibile.” (p. 299)

“Fermò il cavallo sulla vecchia pista delle carovane che stava percorrendo e guardò verso le sierre a ovest, nere contro lo sfondo rosso sangue del cielo.” (p. 310)

“Sulla pianura lontana oltre il lago la polvere soffiava da Babìcora come se fosse stata incendiata.” (p. 323)

“Il sole rosso che brillava nell’ampia fenditura tra le montagne davanti a lui perdeva la sua forma e veniva lentamente risucchiato per illuminare tutto il cielo con un intenso alone rossastro.” (p. 333)

Atmosfere notturne

“Solo il fiato gli diceva da che parte tirava il vento e l’osservava apparire e svanire, apparire e svanire continuamente davanti a sé.” (p. 6)

“Le prime stelle spuntarono a sud, come appese all’intreccio di rami morti degli alberi lungo il fiume. La luce della luna che ancora non si era levata vibrava sulfurea a est della valle. Osservò la luce espandersi lungo i contorni della prateria deserta e la cupola bianca e grassa e membranosa della luna sollevarsi da terra.” (pp. 9-10)

“Le luci della cittadina sparse sulla prateria parevano nella vallata blu un serpente adorno di pietre preziose nel fresco della sera.” (p. 43)

“Le montagne verso sud erano nere contro il cielo viola. La neve sulle cime a nord così pallida. Come spazi lasciati per scrivere un messaggio.” (p. 43)

“Quando si svegliò di nuovo, la luna era ormai calata e il fuoco era quasi spento. Il freddo era pungente. Le stelle ferme al loro posto, come fori in una lanterna di latta.” (p. 71)

“Non c’era vento, eppure il piano immobile dell’acqua tremò nella luce biancastra come se qualcosa vi fosse passato sopra e una luna imperfetta tremò nell’acqua mossa, si piegò e si drizzò nuovamente e poi tutto tornò come prima.” (p. 140)

“[…] i pascoli verso sud, azzurri e silenziosi sotto la luna nascente, la staccionata che si perdeva nel buio sotto le montagne e l’ombra della staccionata che attraversava la campagna, illuminata dalla luna, simile a una sutura.” (p. 141)

“Si svegliò più volte nel corso della notte e a ogni risveglio Cassiopea si allontanava sempre più dalla stella polare e a ogni risveglio ciò che era stato era stato e nulla mai avrebbe potuto mutarlo.” (p. 142)

“Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro.” (p. 155)

“Non c’erano suoni, tranne quello prodotto dal vento che soffiava sull’erba. La stella della sera era bassa all’orizzonte, rotonda e rossa come un sole al tramonto.” (p. 218)

“Il sole che scendeva sotto i banchi di nuvole aveva prosciugato la luce dorata, lasciando la terra tutta blu, fredda e silenziosa.” (p. 224)

“Con il buio apparve un diafano sciame di stelle. Non riusciva a immaginare a che cosa servissero, erano così tante.” (p. 239)

“Alla sua sinistra c’era la sagoma scura del cavallo, assicurato al terreno; sollevava la testa oltre l’orizzonte per origliare tra le costellazioni, poi si chinava e riprendeva a mangiare l’erba. Studiò quei mondi che disordinatamente stavano facendo la loro comparsa nella notte senza nome e cercò di parlare con Dio di suo fratello; poco dopo si addormentò.” (pp. 257-258)

“Si alzò e si incamminò verso il lago, con il serape sulle spalle, guardando le stelle. Il vento si era calmato e l’acqua era nera e immobile. Sembrava un pozzo di quell’altopiano desertico dentro il quale stavano sprofondando le stelle.” (p. 283)

“[…] si alzò e osservò le stelle invernali scivolare via nel buio, verso il nulla. […] spostò gli occhi nel punto in cui il vento agitava l’erba nella fredda notte stellata, come se fosse la terra stessa a muoversi, e disse a bassa voce prima di riaddormentarsi che l’unica cosa che sapeva di tutto ciò che si doveva sapere era che non vi sono certezze su niente.” (p. 302)

“Il rumore della pioggia che cadeva sulla terra rossa indurita della strada pareva quello di un branco di cavalli che in lontananza attraversava un ponte.” (p. 317)

“[…] la città svanì alle sue spalle e le stelle sciamarono nel cielo buio […]” (p. 326)

“Cavalli e cavaliere gettavano sul terreno un’ombra verticale blu prodotta dalla luce della luna. […] Un sole bianco si stava per levare. Abbeverò i cavalli in una ciénega erbosa da cui si slanciavano antichi pioppi in un paesaggio da fiaba, si avvolse nella coperta e si addormentò.” (p. 330)

Luna

“Sulle montagne splendeva, un po’ inclinata, una falce di luna, simile a un occhio mezzo chiuso per la rabbia.” (p. 103)

“La luna sottile, a forma di corno, era appoggiata sul dorso a occidente come un graal e la luminosa Venere le stava direttamente sopra, come una stella su una barca.” (p. 231)

“[…] e la luna si alzava cieca e bianca a est […]” (p. 280)

“Più a valle la luce madreperlacea della luna traspariva dai banchi di nuvole come se fosse una candela piantata su un teschio.” (p. 362)

Fuoco

“Il fuocherello guizzava nel vento e il nevischio sottile cadeva di traverso giù dal cielo nero e moriva con un sibilo tra le braci.” (p. 64)

“In quell’altopiano selvaggio rimase a lungo coricato al freddo e al buio ad ascoltare il vento e a guardare le ultime scintille del fuoco che si spegneva e le crepe rosse nei carboni di legna che si spezzavano lungo venature inattese. Come se dal legno che si consumava emergessero geometrie nascoste, il cui ordine poteva venire completamente rivelato soltanto, così va il mondo, nel buio e nella cenere.” (p. 112)

“Il vento soffiò per tutta la notte. Consumò il fuoco, consumò i carboni sul fuoco e il fil di ferro incandescente bruciò brevemente al buio della notte come l’armatura di un enorme cuore, poi s’annerì e il vento trasformò i carboni in cenere e soffiò via la cenere e pulì la terracotta su cui erano stati appoggiati i carboni e le ceneri fino a che, a eccezione del fil di ferro annerito, non rimase più alcuna traccia del falò e per tutta la notte passarono nel buio oggetti che non avevano una forma precisa, e tuttavia avevano una destinazione.” (p. 148)

“I pochi carboni ancora accesi sembravano segreti e improbabili. Come gli occhi di cose che si era voluto disturbare mentre sarebbe stato meglio lasciar in pace.” (p. 283)

“Le scintille che fuggivano verso la campagna si spegnevano e svanivano come un grido nell’oscurità.” (p. 323)

“Il fuoco nella bajada era poco più che un mucchio di carboni attizzati che, nascosti nel terreno, rompevano l’oscurità come una finestrella segreta aperta sul nocciolo infuocato della terra.” (p. 333)

Lupi/Lupa

“Correvano nella pianura tormentando le antilopi che si muovevano come fantasmi sulla neve disegnando cerchi; tutt’intorno si alzava una polvere bianca al chiaro di luna e il fiato degli animali saliva pallido come fumo nell’aria fredda, come se dentro di loro ardesse un fuoco; nel silenzio i lupi volteggiavano, si contorcevano e spiccavano balzi e parevano appartenere a un altro mondo.” (p. 6)

“Il lupo è fatto come è fatto il mondo. Non si può toccare il mondo. Non si può tenerlo in mano perché è fatto solo di respiro.” (p. 41)

“Rimase sveglio al freddo per tutta la notte. Di tanto in tanto si alzava, sistemava il fuoco e ogni volta lei lo osservava. Quando le fiamme si ravvivavano, gli occhi di lei si incendiavano come i lampioni di una porta su un altro mondo.” (p. 64)

“Ma quegli occhi non abbandonarono il ragazzo, né cessarono di brillare e quando la lupa abbassò la testa per bere, nell’acqua scura apparve un altro paio di occhi, come di un altro lupo appartenente al mondo del sottosuolo, nascosto in angoli segreti, perfino nelle finte pozze d’acqua come quella, perché la lupa fosse sempre rincuorata e mai del tutto abbandonata.” (p. 69)

“Lei lo guardò con quei suoi occhi gialli, che tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo.” (pp. 90-91)

“Quando l’ultimo lupo si fu fatto avanti, formarono una mezzaluna, con gli occhi simili a torce allineate per illuminare il mondo […]” (p. 258)

Immagini mistiche

“Sembrava intento a definire la propria posizione nel mondo. Intento a definire con un arco o con una corda lo spazio tra il proprio essere e il mondo. Ammesso che un simile spazio esistesse. Ammesso che fosse conoscibile.” (p. 21)

“Vi sono imprese segnate dal destino che dividono per sempre le vite tra il prima e l’adesso.” (p. 111)

“Disse che il mondo poteva solo essere conosciuto per come esisteva nei cuori degli uomini. Perché per quanto sembrasse un luogo che conteneva degli uomini, in realtà era un luogo contenuto nei loro cuori e quindi per conoscerlo era lì che bisognava guardare […]” (p. 115)

“Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. Di una certa dimensione e di un certo colore. Di un certo peso. Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo.” (p. 122)

“Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. […] la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare.” (p. 123)

“Non è facile allontanarsi da Dio, capisci? Non è facile. Nel profondo di ogni uomo c’è la consapevolezza che qualcosa sa che egli esiste. Qualcosa sa, e quel qualcosa non lo si può sfuggire né eludere.” (p. 127)

“È ciò a cui aneliamo e che abbiamo timore di cercare ed è soltanto questo che ci può salvare.” (p. 131)

“Il compito del narratore non è facile, disse. Pare che sia obbligato a scegliere la storia che racconta tra le tante possibili. Ma naturalmente non è così. Al contrario, si tratta di derivarne tante dall’unica storia.” (p. 133)

“Alla fine, la strada di ciascuno è la strada di tutti. Non vi sono viaggi isolati perché non vi sono viandanti isolati. Tutti gli uomini sono uno e non vi è un’altra storia da raccontare.” (p. 135)

“Credo sia meglio studiare le cose più piccole. Poi quelle più grandi seguiranno. È nelle cose più piccole che si possono fare progressi. È lì che i propri sforzi si vedono ripagati. Forse è solo questione di atteggiamento.” (p. 202)

“È difficile anche per due fratelli viaggiare insieme in una spedizione come questa. La strada ha le proprie ragioni e non vi sono due viaggiatori che interpretino allo stesso modo quelle ragioni. Se effettivamente riescono mai a comprenderle. […] La forma della strada è la strada stessa. Non c’è altra strada che possegga quella forma, al di fuori di quella. E ogni viaggio iniziato su di essa verrà portato a termine. […]” (p. 202)

“Sia che la vita di un uomo fosse scritta da qualche parte in un libro, sia che prendesse forma giorno dopo giorno, era sempre quella, perché consisteva di una sola realtà, che era il fatto stesso di viverla.” (p. 331)

“La gente si preoccupa del futuro. Ma non c’è futuro. Ogni giorno è fatto dei giorni che l’hanno preceduto. Anche il mondo deve essere sorpreso per come ogni giorno si mettono le cose. Forse perfino Dio.” (p. 337)

“I nomi dei cerros e delle sierras e dei deserti esistono soltanto sulle carte geografiche. Diamo loro un nome per non perdere l’orientamento. Tuttavia, quei nomi li abbiamo coniati proprio perché avevamo perso l’orientamento. Non si può perdere il mondo. Siamo noi il mondo. Ed è perché questi nomi e queste coordinate sono frutto della nostra nominazione che non ci possono salvare.” (p. 338)

“Gli uomini sentono gran rispetto per i fatti della storia. Si potrebbe perfino dire che ciò che dà significato alle cose è unicamente la storia di cui queste sono state partecipi. Ma dov’è collocata quella storia?” (p. 352)

“[…] ultimadamente la verdad no puede quedar en ningùn otro lugar sino en el habla.” (p. 358)

“Disse che gli uomini non riescono a capire che i morti abbandonano non un mondo, ma nient’altro che l’immagine del mondo nel cuore degli uomini. Disse che non si può abbandonare il mondo, perché esso è eterno sotto ogni aspetto, così come lo sono tutte le cose in esso contenute.” (p. 360)

“Nosotros mismos somos nuestra propia jornada. Y por eso somos el tiempo tambièn. Somos lo mismo.” (p. 360)

Altre immagini

“[…] ed entrarono in Messico, nello stato di Sonora, per nulla diverso dalla regione che avevano appena lasciato, eppure totalmente alieno e inquietante.” (p. 65)

“Continuò a cavalcare e le alte montagne a sudovest non sembravano affatto più vicine alla fine della giornata, quasi fossero un’immagine impressa nella retina.” (p. 76)

“I rametti attorcigliati sul dorso del burro sembravano un arazzo di ossa.” (p. 89)

“Disse che le impronte della lupa venivano dal Messico. Disse che la lupa non sapeva nulla di confini. Il giovane don annuì, come per dire che era d’accordo, ma poi disse che importava poco ciò che la lupa sapeva o non sapeva e che se la lupa aveva attraversato quel confine era tanto peggio per lei, perché il confine continuava a esistere.” (p. 101)

“I coyote guaivano lungo le colline a sud e lanciavano richiami dalla sagoma blu della cordigliera, e le loro grida sembravano nascere dalla notte stessa.” (p. 107)

“Sulla parete occidentale della cupola i nidi delle golondrinas sembravano colpi di mortaio tra i paramenti sbiaditi dei santi.” (p. 129)

“[…] si vedevano due gru immobili, ancorate alla loro immagine riflessa, nell’ultima luce del giorno, come statue in un giardino abbandonato e spogliato di ogni altra cosa da qualche calamità.” (p. 147)

“[…] l’acqua ferma nei solchi splendeva nella luce della sera come una griglia metallica lucida che si allungava in lontananza. Come se i cancelli d’ingresso di un’antica impresa fossero caduti a terra oltre i pioppi, lungo la cunetta.” (p. 175)

“Lui si voltò leggermente e guardò il suo cavallo. Vedeva, piegate come un trittico scuro in un fermacarte di vetro, le forme di due uomini e una ragazza illuminate dalla luce fuggevole del fuoco nel centro nero dell’occhio dell’animale.” (pp. 178-179)

“La casa puzzava di umidità e di paglia vecchia e sull’intonaco gonfio e cadente le infiltrazioni d’acqua avevano disegnato ampie mappe color seppia che sembravano riprodurre antichi regni, antichi mondi.” (p. 194)

“Tre anatre scure, immobili, sulla calma di peltro dell’acqua.” (p. 234)

“Il cavallo avanzava a fatica, Billy afferrò la cavezza e prese a camminargli di fianco, parlandogli. Il cavallo, coperto da uno strato bianco di brina, risplendeva come una magia su quella pianura sempre più scura. Quando gli ebbe detto tutto quello che sapeva dire, cominciò a raccontargli delle storie. Gli raccontò storie in spagnolo che sua nonna gli raccontava da bambino e quando ebbe raccontato tutte le storie che ricordava, si mise a cantare.” (p. 239)

“Nella luce che usciva dalle finestre, i tronchi multicolore dell’alameda apparivano pallidi come ossa.” (p. 282)

“Le gru stavano migrando a sud e lui le osservò volare in formazioni lineari lungo invisibili corridoi, disegnati nel loro sangue da centinaia di migliaia di anni.” (p. 285)

“Le ombre, lì dove raggiungevano il fiume, sembravano una scrittura.” (p. 286)

“[…] e osservò il cielo profondo, ceruleo e teso che copriva il Messico intero, dove il mondo antico si aggrappava alle pietre e alle spore delle cose viventi e viveva nel sangue degli uomini.” (p. 287)

“Un giorno all’alba, fermò il cavallo a un incrocio per Buenaventura e osservò gli uccelli acquatici lasciare strisce sul fiume e sulle lagune isolate, le ali che si muovevano lentamente con l’alba rossa sullo sfondo.” (p. 288)

“Una volta in Arizona ho visto la pioggia cadere su una strada d’asfalto. Per un buon mezzo miglio piovve su un lato della striscia centrale, mentre dall’altra parte era asciuttissimo. La striscia bianca faceva da spartiacque. […] Una volta ho visto tuonare nel bel mezzo di una tempesta di neve […] Tuoni e lampi. I lampi non si vedevano, ma intorno tutto si illuminava, bianco come il cotone.” (p. 307)

“Aveva due occhi neri arrossati, cupi e vuoti, simili a scorie di piombo versate in un foro per isolare qualcosa di virulento e contagioso.” (p. 312)

“La sera sentì di nuovo il volo alto delle gru, sopra le nubi, in bilico sulla linea della curvatura terrestre. Con occhi metallici solcavano i sentieri che Dio aveva scelto per loro. Nei cuori il flusso delle maree.” (p. 338)

“Al di là degli alberi si vedeva il contorno limpido e piatto del fiume, simile a un coltello.” (p. 343)

“Il fiume dietro gli alberi sembrava metallo di fonderia.” (p. 365)

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Se ti interessa leggere altro sulla Trilogia della frontiera, ho parlato del primo volume, Cavalli selvaggi, qui e qui. 😉

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I lavoratori del mare: quando la Natura diventa Arte e l’Arte diventa Natura

La mia edizione de I lavoratori del mare.
Foto scattata nell'inverno 2023.
La mia edizione de I lavoratori del mare.
Foto scattata nell’inverno 2023.

È come una marea questa lunga lettera d’amore che Victor Hugo scrive all’isola di Guernsey e all’arcipelago normanno della Manica – una marea imponente, maestosa, di quelle che a vederle ti spiazzano mettendoti davanti un senso di grandezza che non riesci a contenere, che quasi non riesci a concepire, e sì, di quelle che puoi incontrare solo in luoghi come questo, dove l’Atlantico si riversa sulle coste francesi e britanniche.

Una marea, una lettera d’amore. Ecco cos’è I lavoratori del mare. Una lettera d’amore che sa di marea. Ed è amore vero, puro, perché dell’elemento naturale e umano di questo arcipelago Hugo interpreta gli aspetti più luminosi come i più tremendi, mostrando di amare i secondi tanto quanto i primi e inquadrando tutto – la natura benevola come quella distruttiva – sempre sotto il segno della meraviglia, dell’incanto, della suggestione.
Soprattutto suggestione, e in ogni senso, perché il racconto di natura e l’indagine sull’animo umano si fanno pilastri di una trama incentrata sul coraggio e sulla solitudine di un protagonista che per amore sfida e compie l’impensabile – di una trama, ancora, magistralmente giocata sulle sorprendenti direzioni che le coincidenze di intenti umani e di eventi naturali possono determinare.

Nasce così un romanzo che se ti piace il mare ti farà impazzire per come ti ci porta dentro e ti farà impazzire, anche, per come ti sentirai impreparato, impotente, perché c’è troppo da conoscere e troppo che non conosci; ancora, un romanzo dove il lessico marinaresco produce effetti antitetici, stranianti, dividendoti quasi a metà, perché l’intenzione di fermarti di fronte a ogni termine sconosciuto si scontra, specie nei punti in cui queste parole tengono dietro le une alle altre, con un’onda che ti trascina e che non puoi contrastare, e magari, sì, magari ci sono punti in cui non capisci a pieno quanto sta accadendo, ma da qualche parte, in qualche modo, capisci che proprio questo significa essere davvero dentro il libro, e allora sai che va bene così.
È la Natura che diventa Arte, è l’Arte che diventa Natura: annullato ogni confine, Hugo ti prende e ti getta nel tutto, ti porta lì e ti lascia col mare e con le maree, coi venti e le atmosfere, il giorno e la notte, la tempesta, l’avvicendarsi degli elementi, le rocce, i flutti, la pioggia, la bonaccia, la nebbia, le muraglie di nuvole – ti lascia lì a sperimentare ogni sentimento che il mare può esprimere – e con una scrittura poderosa, che ti trascina di continuo tra inquietudine e fascino, paura e incanto, angoscia e meraviglia, ti rende partecipe della lotta di un uomo contro una forza molto più grande di lui – della lotta di un uomo che raccoglie e innalza a suo scudo un ingegno raro e un coraggio eccezionale. E proprio in questo modo, proprio al termine di un’avventura che ti fa pensare non possa esistere coraggio più grande, Hugo ti dimostra l’esistenza di un altro tipo di coraggio, uno più profondo, ancora più viscerale, finché quella marea – proprio quella marea che ti ha trasportato fin lì – non diventa protagonista assoluta di uno dei finali più mozzafiato – letteralmente, perché è impossibile non trattenere il fiato, impossibile non avere il cuore in gola a ogni riga delle ultime pagine – e più forti e toccanti che siano mai stati scritti.

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Una scena che ho amato molto scrivere, e uno scatto natalizio

Uno scatto natalizio per Mari Ermi!
Uno scatto natalizio per Mari Ermi!

Tra le scene che ho amato di più scrivere ce n’è una che ha per protagonisti Ambra, Antonio e il cielo azzurro sulla campagna invernale. 
Ho pensato di regalarvene un estratto qui, oggi, anche perché la scena è ambientata proprio a metà dicembre. 
Spero tanto vi piaccia!

✏️

[…] «Ho detto che devi poggiare la testa per terra.»
Lui si voltò confuso, chiedendosi come facesse Ambra a sapere in che modo si era disteso, visto che continuava a tenere gli occhi chiusi. Non commentò, ma decise di eseguire. Spostò le braccia e poggiò la testa direttamente sull’erba.
E a quel punto se ne rese conto: in tanti anni non si era mai steso sul terreno. Non davvero, non in maniera completa.
Si ritrovava dritto davanti al cielo. E c’era qualcosa… Qualcosa di troppo. Sentì la fronte aggrottarglisi e portò automaticamente le mani a coppa attorno agli occhi che gli si stringevano. A fianco a lui, la risata cristallina di Ambra.
«No, così non va. Così è troppo facile. Togli le mani lentamente e guarda cosa succede.»
Antonio eseguì. E allora gli sembrò che l’azzurro lo inondasse, dall’alto e dal basso, da destra e da sinistra, fino a invadere completamente il suo campo visivo. Cercò di tenere gli occhi aperti, quasi gli si mozzava il respiro.
Era tutto azzurro. Non vedeva altro, non c’era altro.
Luce e azzurro, azzurro e luce.
E all’improvviso, per qualche strano prodigio, i suoni della campagna lì attorno sembrarono amplificarsi. Il ruscello, la brezza, il fruscio tra gli alberi, i rumori tra le canne. Tutto. Ed era vero, quello che diceva Ambra: faceva girare la testa.
Sì, perché quello che aveva di fronte era molto più del bel cielo azzurro che ammirava di solito con i piedi saldamente piantati sul terreno. Era azzurro in un altro senso.
E poi no, non ce l’aveva di fronte.
Era come se, occupando la totalità del suo campo visivo, quel cielo selvaggio, immenso, non si fosse preso solo lo spazio tutt’intorno, ma fosse entrato dentro di lui. E gli entrava dentro con una forza, con un’intensità, con un’energia tale che il suo corpo non riusciva a contenerlo.
Ebbe l’impulso di chiudere gli occhi, poi si voltò e vide che Ambra li aveva riaperti e fissava il cielo. […]

✏️ 🌱

Chiudo la rubrica del 2023 con qualche ringraziamento.
Come sempre, grazie alla Edizioni Convalle per il sostegno costante al romanzo e per la possibilità che mi ha dato di prendere parte alle varie fiere – a Modena quest’anno è stato bellissimo!
Grazie alle librerie che continuano ad accogliere Mari Ermi, aiutandolo a raggiungere nuove strade. Un grazie gigantesco, in particolare, alla Libreria Chiara e Stefy di Bachisio Medde (Ghilarza), che ha mostrato un entusiasmo straordinario per il romanzo e mi ha aiutato con una generosità fuori dal comune.
Grazie a tutte le persone che in un modo o nell’altro mi hanno aiutato e mi stanno aiutando nella promozione.
Grazie infinite ai miei familiari e a Matteo, per quello che fate ogni giorno per me e il mio sogno.
E, naturalmente, un grazie immenso a tutti voi che avete dato e state dando fiducia a Mari Ermi – grazie a chi ha scelto o sceglierà di ragalarselo (o regalarlo), grazie a chi ne ha parlato e ne parla e in giro, grazie a chi l’ha recensito sui social network o nelle librerie online: è un aiuto enorme per me.
È passato un anno e mezzo dalla pubblicazione di Mari Ermi – un anno e mezzo! – ed è bellissimo vedere ancora un simile riscontro dopo tutto questo tempo. Non riuscirò mai a esprimere la mia gratitudine nei vostri confronti, ma spero di farlo al più presto regalandovi un nuovo romanzo.

Un caro augurio di Buon Natale e Buone Feste a tutti! 🎄

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Cavalli selvaggi e L’isola di Arturo: (più di) qualcosa in comune

Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy e L’isola di Arturo di Elsa Morante: due delle storie più intense, evocative e travolgenti che abbia letto quest’anno. Gli stati d’animo di John Grady e di Arturo – e gli scenari in cui i due si muovono – mi hanno emozionato e scavato dentro, accompagnandomi ben oltre l’ultima pagina: su queste due storie sono tornata – torno – di continuo col pensiero, e più ci ragiono, più mi sembra di cogliere, con sempre maggior stupore, aspetti che i due romanzi, pur così diversi l’uno dall’altro, si trovano a condividere. Provo a elencarli qui sotto.

Le mie edizioni de L'isola di Arturo e Cavalli selvaggi. 
Foto scattata nell'autunno 2023.
Le mie edizioni de L’isola di Arturo e Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell’autunno 2023.
  • La tensione al viaggio, all’avventura, alla scoperta del mondo come presupposto per indagare e scoprire se stessi. Che poi queste avventure siano concretamente vissute o soltanto immaginate e bramate, poco importa.
  • Il carattere di romanzo di formazione. Il percorso di crescita interiore fa da filo conduttore in entrambe le storie, innestato nell’una su un impianto western, nell’altra sul quadro agreste e marinaro di un’isola italiana.
  • L’indagine sulla solitudine, come condizione e come sentimento, in ogni sua declinazione. Ricercata e paventata, bramata e detestata, goduta e sofferta, magnifica e terribile.
  • Il richiamo del passato. È incredibile quanto gli “antichi condottieri” dei libri che ispirano Arturo abbiano in comune con lo spirito dei nativi americani che nell’ora “delle ombre lunghe” suggestiona John Grady.
  • L’innamoramento e il passaggio attraverso una storia d’amore come parte dell’esperienza formativa.
  • Il finale. Le “chiuse” che McCarthy e Morante hanno voluto dare alle loro storie sono tra loro così simili che pensarci risulta addirittura spiazzante.
  • La forza delle atmosfere. Due ambientazioni completamente diverse, certo, ma che siano i cieli e le praterie americane o le stelle e il mare di Procida, e che vengano vissute con un cavallo o con una barca, le atmosfere raccontate nei due romanzi hanno lo stesso immenso potere di restare nella mente e nel cuore di chi ci si immerge.

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Scrivere zen è un libro tesoro

L’unico modo per parlare di un libro come Scrivere zen – un libro, cioè, che non ho difficoltà a definire un tesoro – è lasciare che sia lui a parlare: ho scelto così di condividerne in questo articolo due estratti che trovo particolarmente simbolici e illuminanti.
Natalie Goldberg esprime concetti su cui non si può fare a meno di tornare, e molto spesso – basti guardare al secondo estratto – le sue parole sono valide non solo per chi scrive, ma per tutti.

La mia edizione di Scrivere zen.
Foto scattata nell’autunno 2023.
La mia edizione di Scrivere zen.
Foto scattata nell’autunno 2023.

Dal capitolo Vivere due volte (pp. 60-61):

“Be’, intendiamoci: anche agli scrittori piace far quattrini; anche agli artisti, contrariamente a quanto di solito si ritiene, piace mangiare. È solo che i soldi non sono per loro la motivazione determinante. Personalmente, se ho tempo per scrivere mi sento ricchissima, mentre mi sento poverissima se ho uno stipendio regolare ma non ho tempo per il mio vero lavoro. Pensateci. Il datore di lavoro ci dà uno stipendio in cambio del nostro tempo. Il tempo è la merce di maggior valore che un essere umano abbia da offrire. Noi scambiamo il tempo della nostra vita con del denaro. Lo scrittore si ferma al primo passo – il proprio tempo – e gli attribuisce un valore prima ancora di ricevere in cambio del denaro. Lo scrittore tiene moltissimo al proprio tempo, e non ha tanta premura di venderlo. È come ereditare un terreno di famiglia. Quel terreno è sempre appartenuto alla famiglia, da tempo immemorabile. Viene qualcuno, e si offre di comprarlo. Lo scrittore, se è furbo, non ne venderà troppo. Sa bene che una volta venduto il terreno potrà anche comprarsi una seconda macchina, ma non avrà più un posto dove rifugiarsi, non avrà più un posto dove sognare.
Dunque non è un male essere un po’ sciocchi, se si vuole scrivere. Dentro di noi esiste una persona a cui non si può mettere fretta, una persona che ha bisogno di tempo e ci impedisce di darlo via tutto. Quella persona ha bisogno di un posto dove andare, e ci costringerà a fissare le pozzanghere sotto la pioggia, di solito senza cappello, e a sentire le gocce sulla testa.”

Dal capitolo Siate precisi (pp. 84-85):

“Una decina d’anni fa decisi che volevo imparare il nome delle piante e dei fiori che crescevano nei paraggi di casa mia. Mi comprai un manuale, e passeggiando per le strade alberate […] esaminavo le foglie, la corteccia e i semi confrontandoli con le descrizioni del libro. Acero, olmo, quercia, robinia. Spesso baravo, chiedendo a chi vedevo al lavoro nel proprio giardino il nome dei fiori e degli alberi che vi crescevano. Restai stupitissima nello scoprire quanto fossero pochi coloro che avevano una qualche idea del nome degli esseri viventi che abitavano nel loro fazzoletto di terra.
Quando conosciamo il nome di qualcosa, questo ci dà una maggiore concretezza. Elimina le nostre sfocature mentali; ci lega alla terra. Se camminando per la strada vedo una ‘sanguinella’ o una ‘forsythia’, mi sento più in armonia con l’ambiente. Mi sto accorgendo di quel che mi circonda, e so dargli un nome. Sono più vigile e attenta.
[…] Se diciamo ‘geranio’ anziché ‘fiore’, penetriamo più a fondo in ciò che è qui ed ora. Più riusciamo ad avvicinarci a quel che abbiamo davanti al naso, più gli permettiamo di insegnarci tutto quel che ci serve. […]
Imparate il nome di tutto: uccelli, formaggi, trattori, automobili, edifici. Lo scrittore è tutto: architetto, chef, agricoltore; e allo stesso tempo, lo scrittore non è niente di tutto questo.”

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Uno scatto e due citazioni a tema

Ma quanto sta bene Mari Ermi tra i colori d'autunno?!
Ma quanto sta bene Mari Ermi tra i colori d’autunno?!

Ecco finalmente uno scatto autunnale per questo romanzo impregnato di Sardegna, questo romanzo in cui la natura è grande protagonista, in cui la storia di due ragazzi e delle loro famiglie si mischia al verde della campagna, all’azzurro del cielo e del mare e ad atmosfere evocative e intrise di libertà. Un romanzo che parla di sogni, di ricerca di sé, e in cui è proprio il contatto con la natura ad insegnare ai protagonisti ad ascoltarsi e a dare spazio alla propria interiorità.

Accompagno allo scatto due citazioni dal libro a tema autunno-inverno:

🔥 “Se c’era una cosa che gli piaceva dell’inverno, era proprio il fuoco: quel calore naturale sembrava agire fuori e dentro al tempo stesso, come se, scaldandogli la pelle, riuscisse a passargli attraverso e arrivasse a toccare le corde più intime del suo cuore, infondendogli tranquillità e pace. E pensava di non essere il solo, dato che, nonostante la presenza in casa di stufe e termosifoni, il fuoco continuava ogni anno a occupare il suo posto nel camino.” (p. 26)

🍂 “Intorno a metà settembre lui e Ambra avevano ripreso il lavoro alla casetta. Quando avevano interrotto, a giugno, mancava solo il tetto, e quello sembrava decisamente il periodo ideale per concludere: faceva più fresco, e stare all’orto era piacevolissimo a qualunque ora, senza contare che iniziavano a notarsi i primi suggestivi cambiamenti di colore. In quel momento spiccavano in particolare le magnolie, le cui foglie si stavano tingendo di delicate tonalità giallo-arancio. Alcune cominciavano già a cadere, e insieme a quelle provenienti dai campi vicini, portate lì dal vento, creavano in alcuni tratti un sottile tappeto arancio-rossastro, pronto a espandersi e ad arricchirsi, nel giro di un mese o poco più, con le foglie dei susini, dei meli e dei peri.” (p. 383)

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Non smetterò mai di leggere Dialoghi con Leucò

Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Non penso esistano parole più efficaci di queste – queste, pronunciate dal primo interlocutore nel pezzo intitolato Gli dèi – nel condensare il senso ultimo del mito e, insieme, il senso ultimo di questi Dialoghi con Leucò, impresa maestosa compiuta da Pavese, trionfo commovente di grecità e umanità.
Grecità e umanità. Perché insieme?, vi potreste chiedere.
Perché non c’è interrogativo umano, non c’è passione o sentimento che la cultura greca antica non abbia affrontato o esplorato. L’ha fatto in modi e sedi diverse, l’ha fatto soprattutto con la grande letteratura – come non pensare ai poemi omerici o al teatro?! – ma l’ha fatto, ancor prima e ancor più, attraverso il mito, patrimonio antico e universale di un popolo intero, sostrato di qualsiasi manifestazione artistica.
Una mitologia, quella greca, che Cesare Pavese ha fatto propria al punto da poterne scrivere incrociando più livelli di intenti: esplorare l’uomo attraverso il mito ed esplorare il mito attraverso l’uomo, in ventisette dialoghi di uno splendore delicato, di una rara sensibilità e di una profondità sconvolgente.
Dialoghi, dunque. Voci di dèi, semidei e uomini. Voci di ninfe e titani. Ascoltiamo Circe, Tiresia, Eracle; ascoltiamo Saffo, Ariadne, Calipso. Ascoltiamo anche diverse entità: Eros conversa con Tànatos, Bia con Cratos. Frasi brevi, spesso lapidarie, che concentrano strati di significati in una manciata di parole – parole su cui hai bisogno di tornare, midolli di realtà che giri e rigiri dentro di te. E si parla di amore, di origine e di religione; di nostalgia, di vecchiaia, di morte, di passione. Della vita, dunque, semplicemente; e di noi, di noi tutti, perché la domanda, la grande domanda sottesa, è sempre chi siamo? E così, dando voce al mito per quello che è – esattamente per quello che è – Pavese svela del mito aspetti nascosti, regalandoci prospettive inattese di storie che appartengono al nostro immaginario, sfaccettature che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi ma su cui non abbiamo mai riflettuto.
E parlano sempre di noi questi dialoghi. Non solo quando a parlare sono uomini o quando si parla propriamente degli uomini: nel parlare degli dèi si parla di noi; anche nel parlare della dimensione arcaica primigenia si parla di noi.

Sì, perché il mondo è vecchio. Il mondo è più vecchio degli dèi.
I primi dialoghi in particolare rivelano un mondo antico, che rimarrà poi lì, a galleggiare e riecheggiare, quasi sospeso, per tutto il resto del libro, in contrapposizione a quello degli Olimpi ma a quest’ultimo sotteso. È il mondo del Caos primigenio, un mondo prima del tempo, il mondo favoloso – le cose stesse, regnavano alloradelle belve e dei boschi, del mare e del cielo, di lotta e di sangue; è la dimensione dell’indistinto, dove la nuvola la rupe la grotta hanno lo stesso nome, dove ogni entità è titanica e con loro, i Titani, domina l’irrazionale, l’ambiguo, la natura libera e ferina, mentre tutto è istinto, mentre i riti selvaggi spargono sangue.
Cos’era, a quell’epoca, l’Olimpo? Soltanto un monte brullo.
Poi è arrivato il regno degli dèi, gli immortali che hanno vinto i Titani, gli Olimpi che, rappresentando l’intelletto e la razionalità, hanno dato un nome alle cose, hanno messo ordine e portato una legge di giustizianulla si fa che non ritorni. Hanno vinto la selva, la terra e i suoi mostri, dice Eracle a Litierse, non hanno bisogno di sangue.

Ma cosa, quanto possiamo davvero attribuire agli dèi? È questa un’altra grande domanda che risuona ed echeggia. Per dirla con Tànatos, io mi chiedo fin dove gli Olimpici faranno il destino. E la verità, lo spiega Tiresia a Edipo, la verità è che il loro potere è limitato: posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. Di conseguenza, come precisa Ermete, devon trafiggere e distruggere e rifare ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce.
Ed eccolo, è qui l’intoppo: il caos trabocca. Trabocca perché la dimensione arcaica persiste, perché molte entità portano i segni di quell’era mostruosa, il ricordo del pantano, dell’informe furore sanguigno
Forse è anche per questo che gli stessi dèi, pur forieri di un mondo ordinato, sono scossi da passioni distruttive; è anche per questo che possono agire per capriccio – o meglio, ancora con Tànatos, ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo. Possono essere ingiuriosi, loro che, come rimarca un cacciatore, non han rimorsi, tanto che i boschi sono pieni di uomini e donne da loro toccati – chi divenne cespuglio, chi uccello, chi lupo. La stessa Demetra lo ammette con Dioniso: io non so come, ma quel che ci esce dalle mani è sempre ambiguo.
Nulla si fa che non ritorni evoca la giustizia degli Olimpi, ma, allo stesso tempo, proprio perché nulla si fa che non ritorni, sangue porta sangue. Come rivela Prometeo a Eracle, il sangue dei mostri che l’eroe ha ucciso – quel sangue distruttivo rivivrà in lui e lo porterà a morire. Lo stesso concetto è espresso da Teseo: quel che si uccide si diventa, risponde l’uccisore del Minotauro al compagno che lo rimprovera di crudeltà. Non per niente, in un certo senso, non si uccidono, i mostri, e anche gli dèi Olimpi, ricordiamolo, li hanno soltanto vinti.

Arriviamo così al punto focale: i tre mondi – quello arcaico, quello olimpico e quello umano – in realtà convivono. E c’è una tale fluidità tra Titani e dèi e uomini che forse è tutta una questione di nomi, di idee, di paure. Le cose si mescolano, le cose si ripetono. D’altronde il caos umano-divino è, nell’idea di Pavese, la forma perenne della vita. Fluidità, mutabilità: identità. Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?, si domanda Chirone. Quanto agli dèi, finiranno anche loro, decreta Prometeo, lapidario. E, per chiarire a Eracle, precisa: […] i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t’incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.
Torneranno i titani?, gli chiede Eracle.
E Prometeo: Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà. […] Siamo un nome, non altro. […] E il mondo ha stagioni come i campi e la terra. Ritorna l’inverno, ritorna l’estate. Chi può dire che la selva perisca? O che duri la stessa? Voi sarete i titani, fra poco.
Eracle: Noi mortali?
Prometeo: Voi mortali – o immortali, non conta.
Quello che conta, allora, è da dove arriva il divino. Arriva dai posti che abiti, che vivi; arriva da come cresci, dai valori che fai tuoi. E comunque, come rimarca Teseo, […] quel divino che hai nel sangue non si uccide.

Il sangue. Ecco un’altra costante imprescindibile, dall’epoca del Caos primigenio – quando era misto a fango – al presente sospeso del libro, nel quale è strumento dell’uomo per omaggiare gli dèi, fino al momento in cui, come pronostica Dioniso, gli uomini lo vedranno nel vino cristiano.
Il sangue, quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, dice Diana a Virbio, so che è per voi vita e destino.
Destino – è questa l’altra parola chiave, è questo il cardine della riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con la vita: il destino, avversato e detestato da alcuni; il destino, ricercato da altri come imprescindibile parte di sé, del proprio essere umano. Ho bisogno di avere una voce e un destino, dichiara Virbio a Diana, lamentando la condizione di estraneità dal tempo nella quale lei lo ha bloccato – quella felicità adamantina e finta che lo fa sentire un’ombra tra le ombre degli alberi – ed esprimendo nella chiusa finale – chiedo di vivere, non di essere felice – la necessità di una vita normale, magari difficile, ma umana. E se questo riecheggia, in qualche modo, nelle parole di Patroclo – meglio soffrire che non essere esistito – e nel discorso di Saffo, la quale, dopo il suicidio, realizza di preferire sofferenze e inquietudini alla monotonia di una morte che l’ha resa perenne schiuma d’onda, è passando per la sofferenza che Edipo, in uno dei dialoghi più commoventi, esprime la sua particolare visione della vita vera, il suo bisogno disperato di autodeterminarsi, di smarcarsi da quel destino a cui Virbio invece anelava in quanto umano: vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile, afferma Edipo, purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro.
Vivere, soffrire; accettare un destino o resistergli. Del resto, non è forse il destino la cosa più umana tra tutte? Così lo intende Orfeo: il destino, proclama, è più profondo del sangue, […] nessun dio può toccarlo. È cosa tua. Nell’originale interpretazione di Pavese, Orfeo cerca se stesso – non Euridice, ed è per questo che si volta, scegliendo di lasciarla andare – quando scende nell’Ade, e nel cercare se stesso cerca un destino. E quanto risuona, qui, Virbio! E quanto risuona Saffo, quando alla domanda di Britomarti sul destino risponde non l’accetto. Lo sono.
D’altronde, quello che cerco l’ho nel cuore, dice Odisseo a Calipso.

Accettare un destino o resistergli; soffrire, vivere. Vivere, sì. Perché la vita, la vita umana nella sua fragilità, nel suo costante moto di ricerca di sé, di lotta o armonia col destino, nelle sue passioni e in tutte le sue incertezze, possiede un’unicità che la rende più affascinante – e più vera, soprattutto – rispetto all’esistenza immobile nel tempo caratteristica degli dèi.

Sarà per questo che le divinità sono attratte dagli uomini? Che Artemide si innamora di Endimione e Bacco di Ariadne? Ancora, sarà per questo che i dialoghi dove un dio approccia un essere umano regalano le immagini più delicate? Come quella di Artemide, che nel toccare Endimione sui capelli, quasi esitando, viene colta da un sorriso incredibile, mortale, o come quando Dioniso, un dio per cui sorridere è come il respiro, sul punto di venire in soccorso di Ariadne è accostato da Leucotea a un paesaggio, un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell’ora lenta che la terra dà il suo odore, e poi a un profumo rasposo e tenace, tra di fico e di pino, e all’aria che pesa di mosto, e al frutto e fiore del melograno, e al fresco dell’edera, e ai pineti, e alle aie.
Ancora, c’è l’effetto che Odisseo fa a Circe, effetto che la maga stessa ci racconta in uno dei dialoghi più belli in assoluto, uno di quelli in cui guardiamo all’uomo con gli occhi di chi uomo non è, e in cui, per questo, emergono prospettive straordinarie di quella caducità che lo rende unico e inimitabile: la loro vita è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute, riflette Circe prima di mettere in luce quella facoltà – e insieme valore – che appartiene all’uomo e all’uomo soltanto, la memoria. E in questo dialogo, che sublima il potere del ricordo esaltandone la connessione con la dimensione affettiva, l’uomo risplende di possibilità estranee agli dèi – perché per lui il ricordo ha un significato, e perché è questo e solo questo a renderlo immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Una volta – racconta Circe a Leucotea, parlando di Odisseo – credetti di avergli spiegato perché la bestia è più vicina a noialtri immortali che non l’uomo intelligente e coraggioso. La bestia che mangia, che monta, e non ha memoria. Lui mi rispose che in patria lo attendeva un cane, un povero cane che forse era morto, e mi disse il suo nome. Sì, l’uomo dà un nome agli animali. L’uomo ama, e ricorda i suoi affetti. E quest’uomo amava un cane, una donna, suo figlio, e una nave per correre il mare. E con quella sua nave arricchiva la terra di parole e di fatti, incurante del destino che per questo, in qualche modo, riusciva a raggirare.
Sì, perché se è vero che agli uomini accadono cose inesorabili, è anche vero che queste cose sono fatte di assurdo, di attimi inattesi, irripetibili, sorprendenti, come – racconta ancora Circe – quel gioco degli scacchi che Odisseo m’insegnò, tutto regole e norme ma così bello e imprevisto, coi suoi pezzi d’avorio. Lui mi diceva sempre che quel gioco è la vita.

E così gli uomini vivono davvero, a dispetto del destino, e chi soccombe sono in realtà gli dèi, chiusi in un eterno presente – gli dèi che non esistono, ma semplicemente, come precisa Tànatos, sono, in un mondo che passa.

Senza di loro – senza gli uomini – mi chiedo che cosa sarebbero i giorni, riflette Dioniso con Demetra; tutto quello che toccano diventa tempo […] azione […] attesa e speranza, risponde lei poco dopo: ci troviamo nell’ultima parte del libro, pagine meravigliose che condensano e illuminano quanto di più buono ci sia nell’uomo – l’uomo, un essere creativo, coraggioso, fantasioso, capace di adattarsi e industriarsi, di nutrirsi di speranze e promesse e progetti – in una prospettiva di fiducia sul mondo, ma soprattutto in una celebrazione commovente della vita di noi tutti.
È quello che traspira, ad esempio, dalle parole di Cratos e Bia, di Dioniso e Demetra, di Satiro e Amadriade.
Perché Zeus e tutti gli altri dèi sono così attratti dall’uomo? La risposta è che il mondo, se pure non è più divino, proprio per questo è sempre nuovo e sempre ricco. Che questi umani sono poveri vermi, ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta. Che sulle colline han saputo piantare vigneti, facendo dolci paesi di brutti pendii sassosi, e così hanno fatto del grano, così dei giardini, spendendo fatiche e parole e creando un ritmo, un senso, un riposo. Sono preziosi nelle labilità, straordinari nelle debolezze – preziosi e straordinari, soprattutto, per quegli istanti imprevisti, unici, che danno un senso vero alla vita. Per questo nella loro miseria hanno tanta ricchezza. Per questo, soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo.
Senza di loro mi chiedo […] che cosa saremmo noi Olimpici, dice ancora Dioniso. Ci chiamano con le loro vocette, e ci dànno dei nomi. E proprio la riflessione sul valore del nome torna più volte in queste ultime pagine: hanno un modo di nominare se stessi e le cose e noialtri che arricchisce la vita […] sanno darci dei nomi che ci rivelano a noi stessi […] e ci strappano alla greve eternità del destino per colorirci nei giorni e nei paesi dove siamo. È una capacità che afferisce, più in generale, a quella della parola – e la parola dell’uomo, che sa di patire e si affanna e possiede la terra, rivela a chi l’ascolta meraviglie.


E che dire delle storie che sanno raccontare?

Proprio su questo si chiude l’opera. Nel penultimo dialogo, non a caso quello tra Mnemosine e il poeta Esiodo, si riprende il tema della memoria, declinata stavolta nel suo potere di filtrare le immagini e addolcire le asperità e accostata, appunto, alla capacità dell’uomo di comunicare, di esprimersi, di portare la parola al mondo: è così che nasce la dimensione artistica, potere supremo dell’essere umano. Non per niente Esiodo incontra Mnemòsine – la memoria, madre delle Muse e quindi della conoscenza (mi par di sapere qualcosa soltanto con te, le dice) e di tutte le arti – su un monte: è il monte Elicona, sede delle Muse per i Greci, che situavano nei luoghi elevati le feste della fantasia e della memoria, assegnando al pensiero e all’arte una posizione di preminenza sul mondo.

E su un monte è ambientato anche l’ultimo dialogo – su un monte brullo percorso, stavolta nella nostra epoca, da due interlocutori che discutono di mitologia. Perché, sì, quelle alture brulle sono così pregnanti di un passato mitico che basta un nonnulla, e la campagna ritorna la stessa di quando queste cose accadevano. Sono le alture dove i Greci hanno cercato, veduto, narrato quel patrimonio immenso di storie sull’umanità, lo spettacolo del mondo e dei moti del nostro animo – i Greci che sapevano troppe cose, che con un semplice nome raccontavano la nuvola, il bosco, i destini. È, ancora una volta, il potere di un nome che si carica di sostanze di significati: è il semplice, splendente potere della parola, che rivelando un midollo di realtà sorprende e scuote e fa tremare. E la parola è capace, lei e solo lei, di eternare questi luoghi donando loro nomi per sempre, laddove non rimane che l’erba sotto il cielo, eppure l’alito del vento dà nel ricordo più fragore di una bufera dentro il bosco. Per chi ci crede. Per chi crede in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.
Non smetterò mai di leggere questi Dialoghi.

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Mari Ermi: vi racconto il titolo

Era il 1° agosto 2015, ma lo ricordo come fosse ieri. Una giornata nuvolosa e calda, col cielo in gran parte coperto. Io, però, al mare volevo andare lo stesso – avevamo già deciso, e non avrei rinunciato: non era il giorno ideale, sì, e forse non avrei fatto il bagno, ma mi piaceva la prospettiva di trovare quiete in spiaggia in piena estate. Perché era chiaro che quel pomeriggio non ci sarebbe stato nessuno.
Non sapevo, però, e mai avrei potuto immaginarlo, che quel giorno avrei scoperto un luogo – un luogo per nulla lontano da casa mia, ma che fino a quel momento non frequentavo – e che questa scoperta avrebbe avuto su di me un impatto così forte da condizionare il mio intero percorso da allora in avanti.
Quel giorno, la distesa silenziosa di quarzo bianco di Mari Ermi mi ha travolta, nelle sensazioni che ha evocato in me, al punto che attorno alla sua immagine avrei visto raccogliersi e intrecciarsi le idee che rimuginavo da tempo – quell’insieme allora sconnesso di suggestioni, riflessioni, eventi e personaggi per il romanzo che volevo scrivere. Mari Ermi ha cambiato tutto, ed è diventata il nucleo della mia storia. Perché, dopo aver interiorizzato quel pomeriggio, ho capito che proprio a Mari Ermi avrei ambientato l’evento più significativo per il percorso interiore dei miei protagonisti, la scena cardine, peraltro, di uno dei messaggi che intendo lanciare, il nostro bisogno di un rapporto intimo con la natura.
A questo punto, quale altro titolo avrebbe potuto avere il mio romanzo? Nessuno, e nemmeno mi sono mai posta la domanda: il titolo Mari Ermi mette ogni cosa al suo posto.

Come sono arrivata a Mari Ermi non ve lo racconto qui, né vi racconto com’era la spiaggia quel 1° agosto 2015, perché l’ho già fatto nel romanzo: la descrizione nel cap. 24 è la descrizione di Mari Ermi quel giorno, e le sensazioni sono quelle che la spiaggia ha trasmesso a me. Le ho affidate ad Ambra, il personaggio sul quale ho riflesso il mio sentimento nei confronti della natura, ma la verità è che quella descrizione esiste da ben prima del romanzo, perché io l’avevo scritta per me stessa, nella necessità di raccontare e fissare per sempre l’impatto profondo di quel luogo, di quella spiaggia selvaggia di quarzo bianco.

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Sulla necessità di staccare

Sembra scontato, ma di recente mi sono accorta che non lo è affatto: ci sono momenti in cui staccare dalla scrittura è necessario. Staccare completamente, intendo. Non staccare per un giorno o due (poi, certo, anche questo serve), ma per periodi interi, periodi prolungati.
Mi è capitato da poco, e voglio raccontarvelo.

Quaderni, penna, candela: che bello scrivere!
Quaderni, penna, candela: che bello scrivere!

Da settembre 2022 a maggio 2023 ho lavorato molto, davvero molto: impegnandomi a trovare una continuità che prima non avevo mai avuto, ho scritto poesie, articoli e racconti; ho editato, soprattutto, materiale in arretrato da tanto tempo. Poi, però, sono arrivata a giugno stanca. Stanca stanca. Me ne accorgevo quando mi dedicavo all’editing, soprattutto: tempo spropositato per risolvere cose semplici, parti di brani e di poesie che non riuscivo proprio a districare, senso di frustrazione ricorrente.
Quando ho iniziato a staccare, non l’ho fatto consapevolmente. Non mi sono detta: “Basta, stacco!”. Anzi, per un periodo mi sono pure intestardita. Poi, complici le due settimane in Normandia e Bretagna e il mese trascorso a casa, in Sardegna, è successo che ho staccato e basta. Così, semplicemente. Come dicevo, non l’ho deciso, ma da un giorno all’altro mi sono accorta che avevo smesso di lavorare: continuavo a dedicarmi solo alla scrittura libera, annotando pensieri e parole per lo più davanti al mare, ma senza andare oltre.

Ho smesso di lavorare per più di un mese e, quando ho ricominciato a settembre, quello che è successo mi ha sbalordita. Al momento, infatti, questo è stato il periodo più prolifico dell’anno, e non tanto per le ore dedicate alla scrittura (comunque molte: tre al giorno tutti i giorni), quanto per i risultati: le parole che vanno a posto quasi da sole, i pensieri che scorrono, gli incastri giusti in poco tempo e quelle giornate, sì, quelle giornate in cui ho chiuso la sessione con un rarissimo senso di soddisfazione (è incredibile, ma è successo davvero!). Non so quanto ancora durerà questa tendenza, ma ve l’ho raccontato per dirvi questo: quando siete stanchi, prendetevi una pausa. Quando ne avete bisogno, fermatevi. Staccate, senza sensi di colpa, anche per lunghi periodi. Perché serve. Eccome se serve!

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